23 settembre 2006

Una volta iniziai così...

Sarah sta squillando il telefono! Vai a rispondere per piacere?
Driiin…Driiin…Driiin
- Sarah!
- Sto andando!...Pronto?
- Salve vorrei parlare con la signora, è in casa?
- Chi la cerca?
- Le dica un amico, grazie.

- Mamma! Mamma! Ti vogliono al telefono?
- Chi è a quest’ora?
- Non so, dice di essere un tuo amico, ma non mi ha detto il nome; dal tono di voce sembra abbia fretta di parlarti…
- Pronto?
- Parlo con la signora Smith?
- Si! Ma chi è lei?
- Buonasera, scusi l’orario ma…
- Ma cosa? Cos’è successo?!
- Sono il Capitano della Marina Militare, il mio nome è Tyler. Devo dirle una cosa che forse non le farà piacere sentire. Poco fa c’è stato un incidente e suo marito…
- Cosa è successo a mio marito? Sta bene, vero? Mi dica che sta bene!
- Purtroppo no…l’impatto è stato violento e…
- Impatto?! Ma di che diavolo di impatto sta parlando?
- Deve venire subito al Providence Hospital, suo marito è ricoverato qui e credo sia il caso che ci raggiunga, le spiegheremo tutto al suo arrivo, faccia il prima possibile.
- Mamma chi era?
- Nessuno tesoro. Ora io devo andare, farò il prima possibile.
- Dove devi andare?! Vengo con te!
- No! È meglio che tu stia qui, nel caso in cui ci cerchi qualcuno…
- Ma cosa è accaduto? Mi sembri spaventata. Dimmi cosa c’è!
- Ti telefono più tardi, mi raccomando se hai bisogno chiama sul cellulare.

La paura stava assalendo i pensieri di Rachel, il piede premeva sempre più il pedale dell’acceleratore. Correva; correva per raggiungere suo marito, il suo amore, ma mentre correva pensava, pensava a quel che era potuto accadere, a quel che doveva aspettarsi una volta arrivata all’ospedale.
Arrivò, scese di corsa dall’auto, quasi si volesse gettare, andò di corsa all’entrata e si diresse come una furia verso il centralino in cerca di suo marito.
- Dov’è il Signor Adam Smith? Dov’è ricoverato?
- Stia calma signora, m’informo subito, intanto si sieda…
- Non voglio sedermi! Voglio solo vedere mio marito! Dov’è?
- Le ho già detto di aspettare un attimo…

- Stanza 34, terzo piano.
Adam era l’unica persona che amava, la persona con cui si promise di condividere la sua vita, la persona che rappresentava la sua vita, e non poteva, né tantomeno voleva perderlo.
Correva e pensava; pensava a quel che doveva aspettarsi una volta entrata nella stanza. Correva così veloce che il respiro cominciò a farsi affannoso.
- Signora Smith! Signora Smith!
- È questa la stanza?
- Si, ma aspetti! Prima devo spiegarle!
- Parleremo dopo, ora ho bisogno di vederlo.
- È in coma, forse irreversibile…
Scoppiò in lacrime, entrò nella stanza e si sedette di fianco al letto.
Si asciugò il viso e cercò di assumere un’espressione decisa, sicura di sé, forte, quasi volesse far capire a suo marito che anche questa volta ce l’avrebbero fatta.
Cominciò a parlare con la convinzione che lui potesse sentirla; parlava,sembrava quasi che non avesse realmente realizzato che suo marito, il suo amore, la persona che rappresentava la sua vita era lì, disteso su quel letto d’ospedale, così inerme, così indifeso.
Parlava e piangeva, ma il suo era un pianto nobile, di chi sapeva piangere.
- Com’è successo?
- Una nave da carico, una nave fantasma…da terra non hanno avuto il tempo necessario per avvertire, quella nave è comparsa dal nulla, non è stata segnalata e si è diretta verso la rotta sbagliata…Ci spiace, se solo…
- Lasci perdere i convenevoli ora! non vede?! Mio marito è lì, su quel letto, e delle sue scuse ora non me ne faccio niente! Se ne vada!
Rimase lì, immobile, a guardare quel corpo all’apparenza morto, ma lei sapeva, sapeva che la sua anima era ancora lì, pronta ad ascoltare ogni sua parola, pronta a ricevere ogni sua carezza; lo spirito dentro di lui era ancora esistente, forse dormiva, bisognava avere solo la forza di risvegliarlo.
Non sapeva da che parte cominciare. Cosa dire a quell’uomo che la conosceva così bene, che sapeva già tutto?
Ogni piccolo pensiero le sembrava così banale, era una situazione in cui nulla poteva dare la certezza che lui sarebbe tornato.
Voleva stargli vicino, cercare di intuire, anche se solo da una minima espressione, ciò che la sua anima cercava di dire, ma non c’erano movimenti, solo il rumore fastidioso della macchina che teneva ancora in vita suo marito.
Lo vedeva lì, disteso, e un pensiero cominciò ad occupare la sua mente: era questo che il suo amore avrebbe voluto? Rimanere in vita solo grazie ad una macchina, senza sapere se e quando i suoi occhi avrebbero mai rivisto la luce del sole, senza sapere se e quando le sue mani avrebbero potuto toccare nuovamente un petalo di un fiore, ma se anche nulla in futuro fosse cambiato lei non poteva decidere della vita altrui, non era a conoscenza della volontà di suo marito, non avevano mai affrontato questo argomento, non si erano mai preoccupati di un evento del genere….e poi c’è la legge, lo stato proibisce l’eutanasia, perciò doveva abituarsi all’idea di vedere il suo amore lì, disteso su quel letto d’ospedale a combattere tra la vita e la morte.
Ora, come dire a Sarah che era uscita di corsa perché suo padre era stato ricoverato in fin di vita?
Non avrebbe mai trovato le parole adatte, quelle che aiutano ad affrontare con forza ogni situazione, quelle che combattono le lacrime e il dolore prima che questi prendano il sopravvento. Era meglio una telefonata? O forse farsi raggiungere in ospedale? Alla fine decise di tornare a casa e parlare alla figlia con affetto, quell’affetto che lei non è mai riuscita ad esternare ma che suo marito mostrava ogni qualvolta guardava la figlia, lui la ammirava, la contemplava, era orgoglioso di lei, di ciò era stata e di ciò che sarebbe diventata.
Uscì dalla stanza per raggiungere la figlia a casa, andò via con una fitta allo stomaco di chi sa che starà per dare un forte dolore a qualcun altro.
Non era quella la reazione che pensava potesse avere sua figlia, rimase calma e immobile, con lo sguardo fisso, impenetrabile, non una lacrima, non una parola. Era questo l’affetto che aveva nei confronti dell’uomo che gli aveva donato la vita? I suoi occhi emanavano aria gelida, Rachel non avrebbe mai creduto che sua figlia potesse essere così indifferente al dolore del padre.
Si guardarono fisse a lungo senza dire nulla poi, ad un certo punto, Sarah voltò le spalle e se ne andò lasciando sua madre lì, sola con la sua tristezza.
Rachel pianse, ma il suo era un pianto nobile, di chi sapeva piangere.
La cosa che più avrebbe desiderato al mondo era di poter ricevere un abbraccio da sua figlia, un gesto all’apparenza così insignificante ma che sembrava dire che lei c’era, era lì con lei e non l’avrebbe lasciata sola ad affrontare un momento così sofferente.
Ma non fu così.
Tornò all’ospedale, nonostante tutto non poteva lasciare il suo amore da solo, si diresse verso la stanza 34 al terzo piano ed entrò.
Lui era ancora lì, nella stessa posizione in cui l’aveva lasciato un paio d’ore prima, non una virgola era cambiata, non una mosca era passata. L’espressione del viso era sempre la stessa, aveva le labbra socchiuse e serene, tipiche di chi sta dormendo e sogna.
Lei sapeva che forse lui non ascoltava le sue parole ma cominciò a parlare come se fosse convinta di poter interagire con lui, nelle sue frasi si alternavano domande ma queste non ricevevano risposta.
Passò la notte e Rachel cercò di dormire appoggiando la testa ai piedi del letto di suo marito, ma il suo non fu un sonno tranquillo, pensava a sua figlia e piangeva per suo marito, ma il suo era un pianto nobile di chi sapeva piangere.
Il mattino trascorse sereno, sempre se serena si può definire una situazione del genere. Rachel parlò con i medici ma da tutti la stessa risposta, il destino di Adam era ormai segnato, nulla, nemmeno un miracolo poteva ridare a suo marito la forza di reagire.
A cosa serve allora vivere se si è destinati a farlo nel peggiore dei modi? Come si può essere felici se l’unico modo per esserlo è vedere la felicità nello sguardo degli altri? Anzi nemmeno la vista accompagnava ormai gli occhi di quell’uomo, ma riusciva a sentire e capiva se attorno a lui regnava la felicità.
I giorni passavano lentamente e più si andava avanti più sembrava che un giorno fosse uguale all’altro, sempre nello stesso luogo, sempre con le stesse emozioni; come se il tempo avesse giocato a Rachel un brutto scherzo e l’avesse intrappolata in una dimensione temporale, costringendola a vivere di continuo sempre lo stesso giorno.
C’era lei con gli occhi fissi e lucidi verso il letto d’ospedale, c’era suo marito, il suo Adam, sempre con quelle labbra socchiuse e serene, tipiche di chi sta dormendo e sogna, e poi c’era la figlia che si era chiusa in se stessa senza esternare neanche una piccola emozione.
Rachel cominciò a sentirsi sola, veramente sola, non sapeva su chi appoggiarsi per evitare di crollare.
Nella sua vita lei ce l’aveva sempre fatta da sola, i suoi genitori non li aveva mai conosciuti e i parenti del marito non l’avevano mai vista di buon occhio. Lui così di brava famiglia, lei una famiglia nemmeno ce l’aveva, lui così borghese, lei…la classica ragazza allevata in un orfanotrofio e cresciuta per la strada, insomma…da non frequentare. Queste erano le parole che la famiglia di lui usava per definire Rachel. Si sa, chi ha una certa fama l’ultima cosa che vuole è veder infangato il buon nome della famiglia, a costo di non vedere più il proprio familiare. E così fu, Adam, per amore di Rachel, chiuse qualsiasi tipo di rapporto con i suoi genitori.
Nonostante tutto, qualsiasi fosse stato il passato, ora la cosa più ovvia era chiamare i suoceri e spiegar loro l’accaduto, e così fece.
Prese dalla tasca della sua borsa il cellulare e telefonò, dall’altra parte rispose il padre di Adam, Rachel cercò di mantenere la massima calma per non allarmarlo ma le bastò pronunciare i nome di suo marito per scoppiare in un pianto ininterrotto.
Poche ore dopo fu raggiunta dai suoceri in ospedale.
La madre di suo marito aveva il volto stanco e sofferto e Rachel si commosse nel vederla, le andò incontro e l’abbracciò. In quel momento era come se tutti i dissapori che c’erano stati in passato si fossero automaticamente cancellati, il dolore le riavvicinò.
Rachel dovette spiegare con più calma l’accaduto e ogni parola che pronunciava era per lei era un dolore sempre più forte.
I genitori di Adam entrarono nella stanza dove il loro figlio stava lottando per la vita ma restarono dentro solo per pochi minuti, nel vedere che di fronte a tutto ciò erano inermi furono presi dallo sconforto.
Poche ore dopo decisero di andare a trovare la nipote che non avevano mai voluto conoscere, una ragazza di sedici anni la cui vita era un mistero per loro.
Rachel rimase lì in quella stanza d’ospedale in attesa di un segno che forse non sarebbe mai arrivato.

Nessun commento: