24 febbraio 2007

Per non dimenticare


Faceva freddo quando Elisa decise che sarebbe stata a casa. Non aveva voglia di uscire e la neve fuori continuava a scendere. Era una buona occasione per trovare un po’ di tranquillità tra le mura di casa.
Non viveva da sola ma con suo padre e sua madre, ed oltre ai suoi genitori abitava in quella casa la nonna Greta, una signora di ottantacinque anni, di poche parole, con l’aria sempre triste.
Elisa l’aveva sempre vista così, sin dal giorno della sua nascita, e da allora erano passati 15 anni.
Quel giorno in casa non c’era nessuno, lei si era svegliata presto nonostante fosse domenica, forse disturbata dal freddo che penetrava sotto le sue coperte.
Erano andati tutti a messa, come ogni domenica di ogni settimana.
Non riuscì a capire il perché ma quel giorno in particolare era attratta dalla camera di sua nonna, ci entrava ogni tanto per farle compagnia, per giocare con le sue collane e farle tante domande di quando lei era bambina.
Ma quella mattina la nonna non c’era e la camera era vuota con il suo bel letto riordinato ed ogni cosa al suo posto.
Elisa era curiosa, molto curiosa e approfittò di quell’attimo di solitudine per osservare le foto tenute con tanta cura sul cassettone della camera; una in particolare la colpì molto, era stata fatta a Milano e la nonna era con un gruppo di persone, ma nessuno di loro sorrideva e mai la nonna aveva parlato di queste persone nei suoi mille racconti.
Spinta sempre più dalla curiosità tolse la foto dal vetro con la speranza di trovare qualcosa scritto sul retro e così fu: A56478211.
“Cos’era quel numero scritto a penna?” pensò fra sé e sé. L’orologio a pendolo batteva le undici, tra poco non sarebbe più stata sola in quella casa.
Cominciò ad aprire cassetti, scatole, armadi quando le capitò tra le mani un piccolo scrigno di legno intarsiato, non lo aveva mai visto prima. Era molto bello, raccontava un’epoca solo attraverso l’odore che emanava. Un piccolo lucchetto lo teneva chiuso, ma Elisa lo aprì senza troppi problemi, la ruggine lo aveva indebolito.
Quando aprì quel piccolo gioiello rimase scossa, non poteva credere ai suoi occhi dentro c’erano solo due cose una stella gialla, la Stella di Davide e un foglio...un foglio piegato ingiallito dal tempo e dal legno.
Ora cominciava a capire quel numero dietro la foto.
Elisa lo aprì e cominciò a leggere:



“Fui portata ad Auschwitz il 13 Marzo 1943, me la ricordo bene quella data,
perché dopo di questa il tempo divenne il mio nemico, e per due anni non ho mai
saputo che giorno stavo vivendo.
Non so perché sto scrivendo questo,
non so a chi è dedicato ma forse è solo un modo per urlare attraverso una
penna quello che non sono mai riuscita a raccontare fuori, nessuno ha mai
chiesto e io non ho mai detto. Forse la paura di sapere, la vergogna di
chiedere, il rispetto per il dolore, non so quale sia stata la ragione ma
nessuno ha mai chiesto.
Ricordo che appena arrivata al campo mi sembrava di
essere in un enorme fabbrica tanto enorme da non vedere al di là del mio naso,
un po’ per la grandezza di tale orrore, un po’ perché il tempo grigio e la
foschia rendevano tutto così offuscato.
Fummo portate in una baracca, loro li
chiamavano Block, lì ricevemmo dei vestiti (se così si possono definire)una
ciotola e un cucchiaio e scoprii solo più tardi che me li dovevo tenere ben
stretti.
Qualcuna di noi non ricevette nemmeno i vestiti, la fecero subito
andare nelle docce, solo dopo capii il perché.
Tanto dolore e tanta rabbia
non si possono esternare attraverso un foglio.
L’umiliazione che si provava
nel campo non è esprimibile con una penna.
L’uomo non era uomo e la donna
non era più donna. Solo macchine, macchine da lavoro che ad un primo guasto
venivano buttate via.
I corpi fragili e scheletrici non si distinguevano l’un
l’altro, sembravamo un massa di morti viventi con i piedi sanguinanti per via delle
scarpe, il più delle volte di un numero diverso dal tuo, e per via del fango e
della neve che ci portavamo dentro le scarpe per giorni interi.
Per non
dimenticare, ecco perché scrivo, perché spero che qualcuno paghi per quello che
è successo, perché in fondo non posso perdonare, perché la mia famiglia non l’ho
nemmeno vista morire”.



Una lacrima bagnò quella lettera, una lacrima di una bambina che batteva i piedi per un nonnulla e che non aveva mai chiesto a sua nonna ma tu c’eri là? Tu hai vissuto tutto questo?
L’ha sempre vista con la sua aria triste e un po’ imbronciata ma non aveva mai capito cosa si nascondeva dietro a quella corazza.
Suonarono alla porta, Elisa andò ad aprire, abbracciò forte sua nonna e le chiese scusa per non aver mai chiesto.

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